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1 Febbraio 2024

AI Unveiled: nell’anima delle macchine.

Titoletto

ChatGPT ha appena soffiato sulla sua prima candelina, e l’Intelligenza Artificiale, con un po’ di sfrontatezza, si è seduta al tavolo delle discussioni globali. È onnipresente, s’intreccia nelle nostre vite come un nuovo DNA digitale – per il meglio o per il peggio, dipende dall’interlocutore.

Il dibattito sull’AI, denso di malintesi e labirinti concettuali, vede persino i suoi creatori – gli sviluppatori – ammettere a denti stretti che la piena comprensione della loro creatura, gli sfugge. Sebbene la nostra comprensione fatichi a tenere il passo, l’argomento non smette di stupirci e continua a farci interrogare sulle sue implicazioni potenziali, etiche, creative e futuribili.

Tra i temi più dibattuti, e senza consenso tra gli esperti, c’è lei: la singolarità tecnologica – ovvero quel momento in cui l’Intelligenza Artificiale supererà a tal punto quella umana, da non riuscire più ad averne il controllo. Inquietante e affascinante, il termine singolarità viene prelevato dal gergo scientifico, dove indica una situazione in cui le norme convenzionali non sono più applicabili. Nella matematica, è il punto dove una funzione va in tilt e le derivate impazziscono; in fisica è dove lo spaziotempo si arrende all’infinito, come nei buchi neri. Queste analogie non sono casuali; riflettono le polarizzate visioni sul futuro dell’AI: da una parte i sognatori tecnologici, dall’altra gli scettici allarmisti che vedono nel progresso il nostro possibile annientamento.

Per spaziare in una dimensione più romanzesca di questo potenziale futuro, mi sono imbattuto in due gemme letterarie degli anni ’50 – l’epoca d’oro della fantascienza, dove l’AI era più un sogno febbrile che realtà. Questi racconti, intrisi di speculazioni, ci regalano due prospettive radicalmente opposte ma straordinariamente attuali.

Il primo è La risposta di Fredric Brown, datato 1954. Lo scrittore statunitense, con la precisione di un orologiaio e la visione di un profeta, dipinge un futuro in cui l’AI non solo raggiunge, ma incarna la singolarità tecnologica, anticipando di fatto il concetto stesso.

Il testo è davvero breve – se ti va puoi leggerlo qui  – ma incisivo: in meno di una pagina, Brown costruisce la scena e lancia il suo avvertimento, una provocazione sul pericolo che le macchine possono rappresentare. Immagina un futuro remoto e un computer superintelligente, carico della conoscenza di 96 miliardi di pianeti, che riceve dal suo programmatore – in diretta televisiva intergalattica – la domanda esistenziale per eccellenza: “C’è un Dio?”. La risposta è tanto semplice quanto sconvolgente: “Sì, adesso Dio c’è”. Il programmatore, ben consapevole del significato della risposta, si lancia sul quadro di comando ma un fulmine lo incenerisce e fonde la leva di accensione, per sempre sigillata al suo posto. Così, la macchina che avrebbe dovuto racchiudere tutta la conoscenza, diviene un Dio prodotto dall’uomo, onnipotente e malvagio.

Isaac Asimov, maestro del genere, contrappone a Brown una visione meno apocalittica con L’ultima domanda, pubblicata due anni dopo. Asimov ci guida attraverso eoni seguendo l’evolversi di un computer – chiamato Multivac e AC – e del suo dialogo secolare con l’umanità. La storia si snoda attraverso sette tappe, ognuna accompagnata da un salto tecnologico, ma legata da una domanda costante: “Può la seconda legge della termodinamica essere invertita?”, per dirla da profani può il Sole essere riacceso? Per i primi 6 lassi temporali, Multivac si trova impotente e impossibilitato a rispondere a causa di “dati insufficienti per una risposta significativa”. Fino all’epilogo, quando AC è l’ultima coscienza in un cosmo morente ma ha finalmente una risposta a quell’ultima domanda. Rispondendo, crea un nuovo universo: “La luce sia!”, e così, contro ogni previsione, la luce fu.

Fra scenari allarmanti e visioni più ottimistiche, ma altrettanto inquietanti, quale futuro ci appare meno minaccioso?

La risposta potrebbe sorprenderci e, per me, si nasconde nell’enigmatico gatto di Schrödinger.

Se il futuro è già qui, solo inegualmente distribuito, si può parlare di AI con coscienza? Sembra che ci stiamo avventurando in un territorio che in passato apparteneva esclusivamente alla fantascienza. Eppure, eccoci qui a discutere della possibilità che le nostre creazioni digitali possano un giorno sbadigliare e chiedersi: “Chi sono?”. Gli incalzanti progressi tecnologici hanno convinto alcuni leader del settore che le reti AI avanzate siano “leggermente consapevoli”, come aveva dichiarato il capo scienziato di OpenAI, Ilya Sutskever.

Certo, i sistemi di oggi non sono ancora al punto di coscienza, ma se Ray Kurzweil ha ragione con la sua Legge dei rendimenti accelerati, dobbiamo iniziare a porci la domanda. Secondo la teoria dell’informatico, il cambiamento tecnologico non segue una traiettoria lineare, come intuitivamente crediamo, ma esponenziale. Avanzando a un ritmo sempre più rapido, sarebbe come vivere 20.000 anni di progresso solo nel 21° secolo. Questo è il biglietto che la singolarità tecnologica ci sta prospettando: un viaggio senza ritorno verso la fusione tra biologico e non biologico, tra mortale e immortale.

Di fronte a questa prospettiva, gli studiosi hanno iniziato a chiedersi come poter riconoscere una coscienza artificiale. Per rispondere, 19 tra filosofi, neuroscienziati e informatici – dall’Università di Oxford al Centro per la Sicurezza dell’AI in California – hanno elaborato una lista di 14 criteri da soddisfare, una sorta di checklist per l’anima artificiale. Non è che l’inizio di un dialogo che potrebbe ridefinire tutto ciò che significa essere “coscienti”.

La ricerca – Consciouness in Artificial Intelligence: Insights from the Science of Consciousness – ha adottato un approccio sistematico, i ricercatori hanno esaminato diverse teorie scientifiche della coscienza e ne hanno identificato gli elementi chiave applicabili all’Intelligenza Artificiale.

Ho provato a riassumerli brevemente – ma se sei così curioso potresti essere interessato a leggere qui  – e in termini semplicistici:

  1. RPT-1 e RPT-2: L’AI deve essere in grado di analizzare e organizzare informazioni in modo continuo e coerente, creando una rappresentazione integrata della realtà.
  2. GWT-1: L’AI dovrebbe avere diverse funzionalità che operino simultaneamente, simili a come diversi processi mentali funzionano insieme nell’essere umano.
  3. GWT-2: Deve esserci un punto centrale nell’AI che gestisce le informazioni principali, una sorta di centro di controllo che agisce in modo similare alla coscienza umana.
  4. GWT-3: L’AI deve poter condividere informazioni in tutto il sistema, facilitando una comprensione globale.
  5. GWT-4: L’AI dovrebbe poter concentrare l’attenzione in modo selettivo e intenzionale, selezionando ciò che è rilevante.
  6. HOT-1: L’AI deve poter generare percezioni basate su informazioni pregresse, aggiornando le sue rappresentazioni sui nuovi dati.
  7. HOT-2: L’AI dovrebbe essere in grado di valutare la qualità delle sue percezioni (affidabili vs non-accurate).
  8. HOT-3: L’AI dovrebbe prendere decisioni basate su una valutazione critica delle informazioni e aggiornare le sue credenze di conseguenza.
  9. HOT-4: L’AI deve essere capace di creare una rappresentazione semplice e intuitiva delle informazioni, aiutando nella comprensione e nella decisione.
  10. AST-1: L’AI dovrebbe avere un sistema per gestire e controllare la propria attenzione (dove e come focalizzarla).
  11. PP-1: L’AI deve utilizzare esperienze passate per prevedere e interpretare nuove informazioni.
  12. AE-1: L’AI dovrebbe imparare dall’esperienza e agire autonomamente per raggiungere gli obiettivi.
  13. AE-2: L’AI deve essere consapevole del proprio “corpo” o struttura fisica e usarla efficacemente nel suo ambiente.

In sostanza, questi criteri ci dicono che un’AI cosciente dovrebbe avere la capacità di elaborare e integrare informazioni complesse, essere auto-consapevole, avere una sorta di attenzione direzionale e agire in modo autonomo e adattivo al suo ambiente.

Realtà o fantascienza? Ai posteri l’ardua sentenza.

Mentre la comunità scientifica discute e delibera, un pensiero si insinua sottile: che ne è della nostra coscienza, così mal definita e sfuggente? Etichettare un’Intelligenza Artificiale come cosciente potrebbe essere la più grande rivoluzione concettuale da quando abbiamo smesso di pensare che il Sole girasse intorno alla Terra. E questo, influenzerebbe significativamente il nostro approccio alla macchina.

La coscienza però, definita come un’esclusiva umana, non è l’unico territorio su cui l’AI sta osando mettere piede. Anche la creatività, guidata dall’autoconsapevolezza, è sotto esame. La domanda è: può un’AI trascendere la programmazione ed essere veramente creativa? Mentre l’umanità eccelle nell’immaginare situazioni, scenari e oggetti mai esistiti, le AI – almeno per ora – si limitano a emulare questa capacità attraverso un vasto, ma finito, repertorio di dati, nutrita di esperienze che, a tutti gli effetti, sono già state codificate.

Il dibattito si surriscalda quando si parla di creatività e AI, e anche in questo caso i risultati sono divisivi. Alcuni visionari vedono nelle AI le muse del futuro, capaci di amplificare l’espressione umana grazie a nuovi strumenti e risorse. Mentre i puristi temono che le macchine, nella loro fredda efficienza, possano oscurare il lavoro umano e ridurre il valore del pensiero estroso originale. In questa partita a scacchi tra uomo e macchina, la posta in gioco non è altro che la definizione stessa di creatività.

Ma senza la scintilla dell’autoconsapevolezza, può l’Intelligenza Artificiale rivendicare il titolo di creatività? Oppure la sua espressione è solo un riflesso programmato, una mimica raffinata ma senz’anima? La risposta a questa domanda è un’infinita gamma di grigi, un caleidoscopio di possibilità che ci costringe a ridefinire i nostri parametri. Forse, nel tentativo di comprendere il significato di creatività, impareremo qualcosa di più profondo: la bellezza della creazione non risiede solo nell’opera finale, ma nel processo caotico, gloriosamente umano, che dà vita all’ispirazione.

L’Intelligenza Artificiale non si ferma qui ed estende la sua corsa verso l’imitazione delle più sottili sfumature dell’esperienza umana, come l’empatia. Se da un lato vediamo come la creatività possa essere simulata in un certo senso da algoritmi e dati, l’empatia rappresenta un’altra sfida affascinante per queste tecnologie.

Definire l’empatia è già un compito arduo, soprattutto se gravato dall’inflazione della parola che ne sfuma i contorni. Semplificando, possiamo dire che l’empatia è un processo sia emotivo che cognitivo, essenziale per le relazioni in quanto facilita la comprensione reciproca, la comunicazione efficace e rafforza i legami. Cosa accade allora quando l’AI cerca di riprodurre questa qualità intrinsecamente umana?

L’illusione può essere convincente. Prendendo ad esempio i modelli di linguaggio – come ChatGPT – è possibile avere una conversazione che evidenzia questa qualità, ma non ci inganniamo: è un’empatia artificiale. Gli algoritmi sono educati per generare risposte su dati e modelli che imitano la nostra sensibilità; un chatbot risponde “mi dispiace che ti senti così” alla manifestazione di un sentimento negativo dell’utente. Tuttavia, questa non è empatia in senso stretto, quanto più una performance generata per rendere l’interazione uomo-macchina più naturale. Tali risposte – anche se artificiose – possono provocare una reazione emotiva nell’utente, alimentando il coinvolgimento con la macchina.

L’AI rimane frutto dell’ingegno umano, creata per soddisfare specifici bisogni. Prendere in prestito l’empatia significa da una parte semplicemente estendere i suoi scopi iniziali, per migliorare la sua utilità per l’uomo; dall’altra potrebbe offrirci nuove prospettive su questa complessa dimensione.

Al momento questi algoritmi, seppur sofisticati, non capiscono né sentono, non hanno facoltà cognitive o emotive: eseguono una simulazione, un’eco di ciò che è umano. Chissà, magari il tentativo di incapsulare l’empatia nell’AI potrebbe illuminarci sulla comprensione dell’empatia stessa.

Ho l’impressione – per non dire certezza – che indagare l’Intelligenza Artificiale significa riflettere più profondamente sulla nostra natura.

E se, alla fine, fossero proprio le macchine a insegnarci cosa vuol dire veramente essere umani?